Agli scultori giovani (1945-46) *

Affrontiamo la scultura in maniera vergine e naturale, senza prevenzioni o con programmi preventivati, affrontiamola e dedichiamoci interamente ad essa come ad un sacerdozio, nel modo più puro, nel modo più deciso, più morale ed onesto, e staremo per dire più ingenuo.
Non abbandoniamoci al facile e gratuito gioco di trucchi ed invenzioni puramente esteriori e letterari, non seguiamo teorie estetiche che appartengono soltanto a speculazioni filosofiche destinate a rimanere per lo più al puro stato di teorie, lasciamo i programmi a coloro che non sanno dar vita ai loro fantasmi (se pure ne hanno) e lasciamoli perdersi nei labirinti viziosi di inutili discorsi, lasciamo tutto questo ai critici letterati ed agli pseudo pittori-letterati (e perciò non pittori).

 

Buttiamoci al nostro lavoro con accanimento, e che sia la fatica di ogni giornata la nostra più viva realtà, lavoriamo con l’umiltà o la modestia che avevano gli scultori del ’200 e del ’300 nient’affatto intellettuali e tendiamo solamente all’assoluto, all’essenziale, al ‘Vero’.
Tendiamo sempre a far grande, a toccare cioè un vero stile, ed anche se in cento falliremo almeno uno o mezzo di noi coglierà nel segno.
Facciamo del nostro mestiere la nostra ragione d’essere, l’unica e la più spietata. Facciamo che esso non sia mai peccato d’orgoglio e ricordiamoci che solo attraverso un inesorabile lavoro si cresce e si progredisce e che le masturbazioni d’ordine meramente intellettuale e letterario non aggiungono niente alle nostre possibilità di scultori. Non improvvisiamo, non abbandoniamoci al solo estro che col tempo ha tradito (e la cronaca di questo secolo lo dimostra) anche alcuni fantasiosi giocolieri della scultura moderna. Ma costruiamo con amore ed intelligenza e facciamo che ogni nostra opera abbia una profonda e poetica ragione di esistere. Lasciamo ogni debolezza e compiacenza, ricordiamoci che le cose belle sono ‘naturali’, hanno cioè un senso d’eterno e di vero, e danno l’impressione d’essere sempre esistite, anche se sono uscite oggi dalle mani degli uomini, così come sono le cose della natura, che non appartengono (e non ne hanno il senso) a nessun tempo, ma che sono sempre esistite, anche prima, forse, che fossero create da Dio.

 

Facciamo che nelle nostre opere gli altri, questi esseri che soffrono, possano riconoscere una minima parte di se stessi, e solo così, allora, le immagini a cui diamo vita saranno vere.
Se nelle nostre cose non ci sarà almeno un palpito di umanità non saranno vere e se ne staranno inerti, al di fuori della vita, e cioè a dire fredde, accademiche e perciò inutili. Tutto ciò che è arbitrario ed illusorio, inesorabilmente cade, nel tempo.
Ma ora basta, quello che ci stava a cuore lo abbiamo detto, chiaramente e a voce alta.
Ma un’ultima cosa ora ancora importa.
Facciamo che i migliori di noi siano sicuri di se stessi, ma non pieni di se stessi.
Non assumiamo degli atteggiamenti, non facciamo e non ascoltiamo più tanti discorsi, lavoriamo, e se avremo qualcosa da dire, la diremo con i nostri disegni, con le nostre sculture, se ce ne sarà data la grazia. Che ognuno di noi conosca i propri limiti, ma che dia tutto se stesso, che si sia modesti, poiché la modestia, tra l’altro, è principio di ogni saggezza.

 

Aspiriamo ad essere degli artigiani-scalpellini, piuttosto che degli scultori-intellettuali (cerebrali?), così come lo erano gli anonimi delle cattedrali romaniche e gotiche, gente semplice ed umile, ma piena di ardore, di poesia e di vita.

* In: Mario Negri. Opere dal 1936 al 1987 (catalogo Matera), Edizioni della Cometa, Roma 2001, pp.128-129.