J’attends vos silences, espaces
pour devenir un astre pur.
Max Jacob
Nata da un còrdolo di marciapiede in pietra molera trafugato nel cuor della notte s’è levata, pura come un mito, su su sino all’eterno femminino, quell’ineffabile testa del 1911-1912 di Amedeo Modigliani rivista oggi – 3 marzo 1981 – al Musée National d’Art Moderne di Parigi. Tra venti giorni s’aprirà nel Musée d’Art Moderne de la Ville una sua grande mostra antologica. Nella certezza e nel rammarico di non poter essere ancora qui per quel tempo, rientrato in albergo durante tutto il tardo pomeriggio e la sera partendo da lei, da quella testa guardata, amata e riguardata al mattino con l’intensità di un addio cerco di risalire, a memoria, a tutta la storia di Modigliani scultore. Come se avessi ricevuto un dono che mi ha reso felice m’addormento, ripromettendomi di non interrompere più sino alla fine queste mie riflessioni.
Modigliani fu scultore della pietra non della creta che chiamava ‘fango’: lapicida non modellatore in materie da polpastrello. La leggenda racconta che alcuni amici gli regalarono delle traversine da ferrovia in rovere perché scolpisse nel legno. Ma l’unica testa pervenutaci è incerta, amorfa se non apocrifa: quantomeno documenta che tale materia non gli era per nulla congeniale.
Non possedendo ancora quei caratteri peculiari rivelatisi in seguito, il solo esemplare fuso in bronzo, alto 23 centimetri, quello del Museo di Seattle, è sicuramente opera assai giovanile, forse portata da Livorno a Parigi. Suppongo che da allora egli raramente abbia modellato in creta ed è certo che non fuse mai più nel bronzo. I bronzi, tratti dai calchi di alcune sue pietre, sono stati messi in circolazione dal mercato soltanto in anni recenti!
Delle venticinque o ventisei sculture attribuite a Modigliani quante sono le autografe?
Difficile dirlo date le evidenti innegabili discrepanze qualitative che esistono tra alcuni esemplari e altri. D’istinto non credo che tutte lo siano. E poi, quante sue sculture sono andate distrutte, quante disperse o rimaste incompiute e rifinite da altri?
Tutte le sculture sono in pietra arenaria, una sola è in marmo. La testa appartenente a una collezione sconosciuta e che fu esposta nel 1930 alla XVII Biennale di Venezia è la sua sola scultura firmata. Il tempo della scultura in Modigliani, iniziato nell’autunno del 1909, dura quattro anni.
Non è certo una parentesi, ma è il fulcro stesso della sua personalità. Scolpì a taglio diretto sino al 1913; in seguito, venutagli a mancare quella forza che è dovuta e richiesta in scultura, ripiegò unicamente sulla pittura che peraltro non aveva mai abbandonato.
Anche quando dipinge, almeno fino al 1916, Modigliani continua a scolpire. Parrebbe un paradosso, ma lo sento come vero.
La ricerca della forma è condotta in modo analogo a quello delle sculture, il modellato non si illanguidisce, e neppure il colore, come accade negli ultimi estenuati dipinti della sua breve esistenza. Si fa sintetico, denso, altamente espressivo: le forme dipinte paiono modellate, e anche il colore si nutre di una nuova intensità e di un vigore straordinario come in talune antiche sculture policrome. I ritratti sono pressoché monocromi, il rosso prevale accanto a sfumature di ocra e di viola.
Il disegno in certi olii appartiene alla scultura, o, perlomeno, al modo di disegnare di Modigliani scultore. Ad esempio, nel Ritratto di Frank Burty Haviland (1914) la testa, vista di profilo e reclinata in avanti, è una ‘forma’ che sta sul rosso acceso della camicia e sulle spalle bruno-violacee come su di uno zoccolo. Il cranio è fortemente allungato all’indietro, la curva continua del collo e della nuca – vera linea di forza – è un necessario, insostituibile sostegno statico.
Anche il Ritratto di Henri Laurens seduto (1915) segue moduli sculturali: il collo è un cilindro, il busto, appena toccato di ocra, specie nella parte sinistra, è massiccio e bloccato volumetricamente come in una statua arcaica.
Il calore, il volume del volto, il collo, gli occhi senza pupille, le trecce di quell’incantevole dipinto che è L’enfant gras (1915), da me tanto amato e più e più volte visto e tornato a rivedere in una casa amica sempre come se fosse la prima volta, possono rievocare non so quale sua fascinosa scultura. Il Ritratto di Moïse Kisling (1915), specie nel viso asimmetrico, è tutto teso a una serrata ricerca di elementi plastici. La struttura disegnativa della Beatrice Hastings (1916) – alludo alla sola testa ed al collo – sembra la trascrizione dipinta di una delle teste scolpite in pietra e così la Lola de Valence (1915), vista di profilo, è un vero e proprio quadro-scultura.
Dal 1916 in avanti tutto, in Modigliani, si fa solo e trionfalmente pittura, le figure si umanizzano perdendo quella ieraticità tipica delle sculture.
Egli ora è solo pittore di ritratti, di nudi stupendi nelle forme e accesi nel colore in cui, a differenza di quanto avviene nelle sculture, si esalta e vive una sensualità nobile e pura, mai compiaciuta o volgare.
A fianco dello scolpire vero e proprio c’è, nell’opera intera di Modigliani, una fertile felice produzione di disegni: nei quali la precisazione formale è progressiva, tesa com’è verso una purificazione della forma; un’eliminazione graduale, un affinamento tenace e avanzante verso una semplicità senza condizioni, pura e totale senza compiacere a una grazia di maniera, a un’espressività intenzionale.
Così come le gouache e gli acquerelli, anche i disegni delle cariatidi, dei nudi e delle teste sono tutti sculture realizzabili e malauguratamente non realizzate.
Direi, anche, che i disegni delle teste, di alcuni profili, di certi ‘prospetti’ sono da architetto-scultore. Da scultore-lapicida, cioè colui che cerca la forma esercitandosi nel pensiero, cercando dentro di sé e sulla carta prima che nella pietra.
È verosimile pensare che all’inizio della sbozzatura, come ogni altro scultore, Modigliani a carboncino o con matita da marmo abbia tracciato sulle facciate del blocco prescelto una qualche eco sommaria dei propri disegni, poiché nella sua scultura lo sviluppo plastico delle forme e dei volumi in divenire si sente che è già stato maturato nel disegno.
Non voglio affermare che per ogni scultura egli facesse una maquette disegnata, ciò ne avrebbe raffreddata l’esecuzione: voglio semplicemente sottolineare che la messa a punto formale avveniva ‘a monte’, facilitata dall’esercizio, dalla disciplina incessante del disegno. Una preparazione formale che all’atto della realizzazione nel blocco si liberava felicemente e liricamente in forme dirette che subito prendevano vita. Non era un virtuoso e perciò credo che di rado egli abbia improvvisato sulla pietra.
Certe teste viste di fronte o di profilo, più che a mano libera sembrano eseguite con strumenti da disegno: tanto deciso è il segno, condotto e definito come se egli progettasse, anzi che teste, capitelli o colonne. In altri fogli il contorno è fortemente sottolineato e ispessito tanto da far sembrare il disegno una vera e propria ‘sezione’. In una testa di Cariatide (1911), proveniente dalla collezione di Paul Guillaume, si profila una ricerca a linee tutte curve che inopinatamente riporta alla mente quella di Oskar Schlemmer. Qualche testa di cariatide si trasforma in mensola, in capitello dorico o meglio toscano, con àbachi ed echini, gole diritte, astragali e corone. Le influenze ascendenti si fanno greche più che romaniche o gotiche. Solo in alcune teste isolate, fini a se stesse, di donna o di uomo che siano, si profila, ma non più che tanto, la seduzione di alcune sculture africane: ad esempio, delle sculture Bantou, delle lunghe maschere Fang della società Ngil nel Gabon, della grafia propria delle bambole Ashanti nel Ghana, delle teste dei rocchetti per tessitura Guro, ma soprattutto della grazia che è tipica dei ‘greci’ d’Africa, i Baulé. In una serratura Dogon che possiedo da anni, ogni volta che la guardo anche di sfuggita intravedo un Modigliani, ma non so dire perché. Forse è soltanto la suggestione di quella forma stretta e allungata, quel suo finire a punta come la prua in una carena di piroga. Un persistente fascino sciamano mi proviene tuttora da quell’oggetto.
I disegni, le gouache, i pastelli, gli acquerelli delle cariatidi, spesso di grande formato, sono più determinati, più liberi, più sicuri, più felici, forse, di quell’unica cariatide scolpita in pietra tra il 1912 e il 1913 cui, a mio parere, nuoce l’impaccio della dimensione ridotta a soli 92 centimetri.
Suppongo che se ne avesse avuto il modo, la salute e la forza, molti di tali disegni e guazzi si sarebbero trasformati in cariatidi o nudi scolpiti a grandezza naturale e anche più, perché questo era nei sogni dello scultore, ma non purtroppo nel suo destino.
I nudi di donna in piedi, inginocchiati o accovacciati, degli anni 1910, 1911, 1912 sono esclusivamente disegni per sculture, delle vere e proprie statue di donna studiate e precisate in ogni forma e volume. Ma il gran vanto, il titolo di capodopera appartiene alle grandi cariatidi colorate, a quelle abbozzate col grasso pastello blu, da lui chiamate ‘colonnes de tendresse’, in cui sembrano sfiorati se non raggiunti appieno i più alti ideali plastici di Modigliani.
La sua scultura è al tempo stesso madre e figlia del suo disegnare. Di conseguenza non si può dire del disegno senza rapportarlo alla scultura o parlare della scultura senza risalire al disegno. Solo così è possibile guardare con coscienza più piena al suo modo di fare scultura.
Ricordo una fotografia del 1912 che ritrae Modigliani nella corte della Cité Falguière dove aveva studio al primo piano e dove, nel cortile, sgrossava le pietre. Modì è in piedi di fianco a una grande testa in lavorazione, posata saldamente su di un massiccio trespolo in legno. La foto è piuttosto sfocata e ciò che spicca di più, anche per il suo biancore, è l’ampio volume sferico di quel volto dal sapore attico che si stacca, venendo in avanti con densità e forza, dalla parte posteriore, appena abbozzata a pilastro. Stupenda immagine, lo spazio d’un attimo, il tempo d’una posa, l’atto di incrociare le braccia e di guardare all’obiettivo e tutto è già finito nel mentre stesso che accade.
Resta, accecante, il pieno di quell’‘ovulo’ dai valori assoluti e l’eco immaginaria dell’attrito sicuro dei ferri che nella materia vanno irruenti a cercare la forma.
Anche se era una pietra povera, per me essa ha tutto il candore cristallino d’un marmo pario.
Chi iniziò Modigliani alla scultura?
Non dimentichiamo che nel 1909 aveva come vicino di studio a Montparnasse, sempre al numero 24 della Cité Falguière, Constantin Brancusi giunto a Parigi nel 1904, cui fu presentato dal dottor Alexandre. Spinto da un autentico istinto, in scultura si comportò da autodidatta, seguendo, al più, qualche prezioso e autorevole consiglio. Ma non credo a influenze ben definibili.
I rapporti con la scultura di Brancusi – alla quale molti tendono a ricondurre quella di Modigliani – non sono poi così verosimili. Si pensi, per una certa vaga similitudine, al Ritratto della baronessa R.F. del 1909, lavoro anomalo nel contesto dell’opera di Brancusi. Manieristicamente stilizzato e dal sapore decorativo, mi pare abbia poco in comune, plasticamente e poeticamente, con le ‘teste’ di Modigliani. Certamente Brancusi gli insegnò e lo guidò nel mestiere da grande artigiano qual era, ma stilisticamente non l’influenzò mai, perché le rispettive ricerche plastiche ed espressive non convergevano.
Anche Modigliani vagheggiava di creare porte, architravi, colloqui e accostamenti non casuali di più sculture radunate assieme; il suo maggior sogno inattuato resta il ‘Tempio dell’Umanità’ per il quale voleva scolpire un’intera serie di cariatidi.
Sono queste fantasie irrealizzate, questi sogni svaniti ad apparentarlo a Brancusi. Il quale solo più tardi, nel 1937, poté concretizzare questo modo di fare scultura, in grado di andare al di là del singolo pezzo, fine a se stesso, per attingere a qualcosa di più: monumento silente di una certa visione e di una certa filosofia di vita, e anche scultura, ma creata per un prossimo ben più vasto di quello rappresentato dai pochi singoli ammiratori.
A Târgu Jiu, in Romania, Brancusi realizzò un intero complesso scultoreo-architettonico in cui un percorso appositamente studiato unisce la Porta degli Sposi (o Arco del bacio) con la Colonna senza fine e con la Tavola del silenzio. Ma opere quali Maiastra (1915), Mademoiselle Pogany prima versione (1913), Musa addormentata (1910), ripresa più volte in seguito, il Figliol prodigo (1914), per dir soltanto di realizzazioni coeve, sono assai lontane e diverse dalle concezioni modiglianesche.
Brancusi che leggeva come libro d’ogni giorno la Vita di Milarepa, poeta, mago ed eremita tibetano dell’XI secolo, era influenzato da filosofie e religioni orientali.
Poeta in proprio, lettore assiduo e raffinato di poeti stilnovisti, di Dante, Petrarca, Poliziano, Ariosto, Leopardi, Baudelaire, Rimbaud, Lautréamont, D’Annunzio, Oscar Wilde e Apollinaire, Modigliani «circondato da un compatto anello di solitudine» girava ostinatamente solo attorno al suo ‘archetipo’, avvicinandoglisi ogni volta di più, captando qua e là ciò che era nell’aria, ma restando in sostanza un individualista esasperato, un déraciné che ha avuto in scultura uno stile che è stato soltanto suo.
Come Brancusi, del resto, rimase felicemente inerte di fronte al futurismo e indifferente – ne fu appena sfiorato – al cubismo, a quel cubismo glorioso di cui buona parte degli scultori parigini del tempo pur si nutrivano, da Archipenko a Laurens, da Lipchitz a Zadkine, i quali tutti divennero d’altronde suoi amici. Riferendosi a Laurens, Franco Russoli giustamente commenta: «L’intimità fra i due determinò reciproci influssi, che si risolsero per Modigliani in una saldezza volumetrica, di sintesi strutturale».
A questo punto credo che non si possa far finta di ignorare come Modigliani abbia visto e ammirato i disegni di Rodin, l’autentico inventore del disegno moderno a linea pura, rapida e continua.
Ebbe modo di conoscere l’opera di Wilhelm Lehmbruck, suo coetaneo, certo a lui più affine di quanto non lo fosse Elias Nadelman, al quale, invero piuttosto stranamente, era interessato?
Conobbe e stimò Manuel Manolo che ebbe, all’inizio, forme e soggetti – nudi e cariatidi – analoghi ai suoi. Forse non gli sfuggì neppure l’opera precoce, nata da influenze brancusiane e cubiste, del giovanissimo Henri Gaudier-Brzeska, di sei anni più giovane di lui, vissuto esule a Londra e morto in guerra nel 1915 a soli ventiquattro anni.
Ma anche altri scultori meno ‘in gloria’ dei sopracitati Modigliani conobbe e frequentò, come Léon Indenbaum che ritrattò nel 1915, o il fiorentino Rosso Rossi, o ancora il più noto Jacob Epstein che di lui scrisse, per non dire del geniale pittore portoghese Amadeo de Souza-Cardoso, grande estimatore di Modigliani scultore tanto da ospitarne nel proprio studio, in rue du Colonel Combes, nel 1911, una vera e propria esposizione di sculture e di gouache. Una forte amicizia e stima li legava, oltre ad alcune affinità stilistiche. Purtroppo Modigliani ne pianse assai presto e amaramente la morte precoce, avvenuta nel 1918, a soli trent’anni.
Nei ricordi della sua vita – Le maillet et le ciseau – Ossip Zadkine parla a lungo di Modigliani; fu lui, tra l’altro, a presentargli Beatrice Hastings.
Uno dei testimoni più credibili e più partecipi delle vicende vissute da Modì fu Jacques Lipchitz, attratto dall’«impeto melodioso» e dalla bellezza di Modigliani. Si conobbero nel 1913 ai giardini del Lussemburgo una sera verso il tramonto mentre Modì, declamante versi della Divina Commedia, stava passeggiando insieme al ‘suo’ Max Jacob. Da allora si frequentarono molto, con reciproche visite ai rispettivi atelier e, anche, con non poche polemiche sull’arte «del levare o del mettere». Un giorno, a “La Ruche”, Lipchitz gli fece conoscere Chaïm Soutine e in seguito, nel 1916, gli chiese di ritrattarlo insieme alla moglie, Berte Kitroper, da poco sposata. Il prezzo richiesto da Modì fu di «dieci franchi a seduta e un po’ di liquore».
Moïse Kisling e Conrad Moricand all’Hôpital de la Charité il 24 o 25 gennaio 1920 presero maldestramente il calco della maschera mortuaria di Modigliani; fu Lipchitz a ricostituirne le parti mancanti e a provvedere alla riproduzione in gesso di dodici copie che vennero distribuite tra i famigliari e gli amici più intimi.
Rimpiango di non aver mai avuto modo di leggere il Ricordo di Modigliani di Osvaldo Licini, uscito sulla rivista «L’Orto» di Bologna nel 1934; né mai sono riuscito a venire in possesso di quell’Omaggio a Modigliani così ricco di preziose testimonianze che Giovanni Scheiwiller pubblicò nell’ormai lontanissimo 1930; né conosco Tournant dangereux del pittore Maurice de Vlaminck, pubblicato a Parigi nel 1929.
Certamente non ha torto chi sostiene che nelle sculture di Modigliani convergono in perfetta addizione numerose culture, dai suoi contemporanei, agli egiziani, ai greci arcaici, dai pittori senesi a Tino di Camaino, dall’arte negra a quella orientale, in special modo quella Khmer. Più che di influenze tuttavia parlerei di assimilazioni che lasciano intatta, autonoma protagonista, la grande personalità di Modigliani.
In fondo, specie per quanto concerne la pittura, soltanto Paul Cézanne – che gli si rivelò alla prima retrospettiva parigina del 1907 – rimase il suo unico mito, il vero maestro elettivo. Per tutta la vita l’aiutò a formulare il suo linguaggio formale nelle sue strutture primarie; fu da lui che apprese il concetto fondamentale di sintesi e di struttura.
Voglio ricordare ancora una volta Franco Russoli, il quale con grande chiarezza, nel 1967, ha scritto: «Modigliani anela un’espressione artistica che sia antica e nuova insieme, tanto ricca di motivi e risonanze culturali ed esistenziali, quanto semplice e spoglia nel puro modulo linguistico: un’arte non abile, ma assoluta». Aristocratico e orgoglioso, indomito e irruente, impertinente e generoso, lirico e patetico, in Amedeo Modigliani è impossibile scindere la personalità dell’artista da quella dell’uomo. Pochi come lui hanno vissuto nello stesso modo in cui hanno disegnato, dipinto o scolpito. Angelo amaro, divorato da febbri sublimi, si comportava come chi possedendo un dono sa che non può tenerlo soltanto per sé, ma che deve dividerlo col suo prossimo. Viveva come creava: poeticamente. La sua vita breve, intensa e tragica, è il suo primo grande e disinteressato poema: i disegni, le sculture, i dipinti ne sono solo il commento e la traccia.
Ci ha dato una bellezza che in sé conteneva anche dei doveri dolorosi. Sapeva di aver poco tempo e in quel poco in lui e di lui tutto s’è compiuto con una tensione sublime. Mirabile «pittore dei dolori» lo definì Gustave Coquiot nel suo libro Les indépendants, del 1926.
Chi se non Amedeo Modigliani poteva avvertire, più degli altri e per primo, il grido e il talento di quel suo disperato fratello d’arte che fu Chaïm Soutine, tanto da farlo conoscere e assumere, nella sua povera e sparuta équipe, da Zborowski, cui poco prima di morire disse: «Non ti preoccupare Léopold, in Soutine ti lascio un uomo di genio».
La sua poetica estetizzante, venata di lirismo intimista, retta da un rigoroso idealismo e da una sempre intatta tensione etica, cercava forme chiuse, incorrotte, tese a un’espressione monodica, non aliena da una tendenza al simbolo.
Le sue teste, e tra loro le più pregnanti, evocano la tenerezza d’una lunga, struggente levigata carezza che si fa puro atto d’amore per il volto della donna.
Idoli di calcare, mitiche donne-pietra, arcangeli di una grazia e di una luce tutte spirituali, queste teste-scultura riconducono ognuno che le guardi, avvinto dalla loro bellezza arcana, a quelle fonti sacrali che stanno alla radice di tutte le stagioni feconde della scultura.
Così, ad esempio, la Testa (1911-1912) della Tate Gallery di Londra: profilata a coltello, tagliata a cuneo, molto stretta e tutta svolta in una verticale mirabilmente sostenuta dall’appiombo del naso, il cui disegno continua sino al mento per morire, all’intervallo del collo, su una piccola base leggermente convessa, certo voluta da Modigliani stesso. Di sicuro doveva avere un titolo ben più puntuale di quello generico di ‘testa’; pare venisse da lui chiamata «testa per la parte alta di una porta». La chiave di volta, dunque, del portale di quel ‘tempio della bellezza’ che aveva sempre e invano sperato di elevare.
L’insieme delle teste-scultura di Modigliani è costituito da tre differenti tipologie.
Alla prima ne appartengono tre e sono le più possenti, quelle dai volumi più ampi, più pieni, quasi sferici con colli rotondi e forti come colonne.
Alla seconda quelle – e sono solo due – in cui l’uso di una pietra più porosa determina una volumetria plastica meno rigorosa e definita; i tratti dei volti, non ancora tipicizzati, rimangono quasi naturalistici; forse erano dei tentativi di ritratti, uno col busto, l’altro con una folta massa di capelli.
Alla terza tipologia, la più numerosa e coerente, appartengono quelle tipicamente ‘verticali’, nelle quali senza alcun dubbio si annoverano alcuni capolavori.
È da notare che la dimensione di queste teste è costante, mediamente intorno ai 60 centimetri. Ciò dimostra la tendenza di Modigliani a far grande, a prediligere dimensioni uguali, o, meglio, superiori al vero, attitudine frequente in chi usa come materia prima la pietra e in chi lavora, come lui faceva, a taglio diretto, senza modelli da mettere a punto ingrandendoli.
Dell’opera scultorea di Modigliani rimangono infine da considerare i due unici nudi.
Il primo, della collezione G. Schindler di Port Washington (New York), alto un metro e 6o centimetri, è la scultura di Modigliani di maggiori dimensioni. Una copia di tale nudo in piedi (forse in cemento) appartiene all’Australian National Gallery di Canberra.
Lo schema compositivo, la ricerca di certi particolari li troviamo in molti disegni, come per esempio quello della collezione Alsdorf di Winnetka nell’Illinois, o nel Nu debout de face (1910-1911), appartenente a una collezione privata milanese, o ancora nel Nu debout de côté (pure 1910-1911) di una collezione parigina e in alcuni altri.
È la più ‘asiatica’ delle sculture di Modigliani per quella sua ieraticità da idolo. Le braccia conserte, i piccoli seni situati molto in alto, il ventre pieno e sferico, a calotta, i fianchi larghi, le gambe forti e tozze appena abbozzate sostengono quello che, a mio modesto parere, è uno dei più bei volti di Modigliani. Una testa massiccia se considerata nell’insieme delle proporzioni del corpo, ma assai solida nel modellato, intensa nell’espressione, con quegli occhi assorti in meditazione, spessa e profonda, ricca di modanature quasi architettoniche sui fianchi, che la fa distinguere come un unicum fra le teste normalmente più conosciute.
Il secondo nudo è la Cariatide del Museum of Modern Art di New York. Per le piccole dimensioni, cui già s’è accennato, forse non è pari per qualità ai grandi disegni e guazzi aventi per tema il medesimo soggetto. Non ne possiede il ritmo, l’armonia, il chiuso e largo senso compositivo.
Nel tempo (1913) è l’ultima opera scultorea. Sembra un abbozzo interrotto in cui la pietra accenna a farsi ‘carne’ come nei quadri dei nudi.
È già naturalistica, priva di quelle stilizzazioni architettoniche proprie alle altre sculture. Plasticamente ha brani stupendi ma forse non possiede la forza di sostenere quel peso che dovrebbe avere sopra di sé. Il frammento che la corona è troppo esile, avrebbe dovuto avere maggior spessore, ma la pietra è venuta a mancare. Qualcosa vorrei aggiungere per la Testa appartenente alla collezione Jean Masurel di Roubaix. Eseguita tra 1911 e il 1912, è l’unica scolpita in marmo.
La materia, e non solo la materia impiegata, la rendono diversa da tutte le altre.
Il blocco da cui è tratta è un parallelepipedo piuttosto stretto e alto. Per ridurla alle volute proporzioni Modigliani ha tratto dal marmo una mensola da cui il volto, con l’arretramento del collo, viene ad aggettare come una maschera. I lati non sono scolpiti ma solo graffiti a piccoli tratti paralleli; la lavorazione è varia: v’è lo spacco, la punta, il ferro piatto, la gradina, la levigazione. La materia risponde, è come se Modigliani vi disegnasse lasciando tutti i segni non cancellandone alcuno. Sfrutta il non finito, affossa naso e occhi, con teneri tocchi ai capelli. Tutto in questo viso è concentrico, come se quel centro cui tutto muove volesse essere il fulcro di un misterioso messaggio.
Modigliani ne ha fatto un suo disegno di pietra, uno dei suoi più belli e da quel poco marmo è scaturito un frammento d’universo.
* * *
Accanto a testi credibili e veritieri di poeti ed artisti diretti testimoni del suo esistere, un gran fiume di parole s’è abbattuto ed è scorso su Modigliani.
Vite romanzate pseudo-letterarie, aneddoti veri o inventati, testimonianze riferite e ricordi scritti solo perché un giorno qualcuno l’ha casualmente conosciuto e l’ha visto aggirarsi inquieto tra i caffè e i bistrot di Montparnasse.
Come tutti i maudit, ha attratto e suggestionato molti, purtroppo anche il cinema, malasorte condivisa con Toulouse-Lautrec, van Gogh, Gauguin, Gaudier-Brzeska, anche se un bravo attore come Gérard Philipe ha fatto il possibile per immedesimarsi nel personaggio.
Affascinato dalle fotografie indimenticabili di Modigliani vivente, quasi intendessi idealmente scattarne altre, vorrei ora trascrivere alcuni brevi flash d’autore, lampi eloquenti al pari delle immagini. Lasciando alla leggenda ciò che le appartiene, ascoltiamo la voce di chi, poeta o artista, l’ha ricordato, alla ricerca di alcuni attimi di vita che appartennero alla sua esistenza quotidiana.
Chiamiamoli e leggiamoli, sia pure frammentariamente, uno a uno come altrettanti testimoni.
Max Jacob
«Il suo viso era aperto, bello, di carnagione scura. Aveva il portamento di un gentiluomo, ma vestito di stracci e Picasso diceva che lui solo sapeva abbigliarsi tutto in velluto con camicie da operaio a quadri».
Ludwig Meidner
«Caratteri come il suo non possono essere modificati, influenzati, né si può indurli a condurre una vita più ordinata. […] Non aveva mai nulla, perché era incapace di conservare qualcosa. […] Aveva quotidianamente preoccupazioni e difficoltà, ma questo non turbava la sua estrosa allegria. Amava troppo la vita, che fioriva allora ancora in un alone romantico».
Jacob Epstein
«Di notte soleva porre delle candele sopra ognuna delle sue sculture e l’effetto era quello di un tempio primitivo».
Jacques Lipchitz
«Quando arrivai nel suo studio, era primavera o estate, lo trovai che lavorava all’aperto. Alcune teste di pietra – forse cinque – stavano sul pavimento di cemento del cortile davanti al suo studio ed egli cercava di adattarle l’una all’altra. Lo vedo come fosse oggi, chino sulle sue teste, assorto a spiegarmi che le aveva concepite tutte come parti di un insieme.
Mi sembra che queste teste siano state presentate poco dopo, al Salon d’Automne, disposte a scala come le canne di un organo per meglio esprimere quel senso musicale che egli desiderava».
Dopo aver ricordato l’agonia di Modigliani morto balbettando dei versi nel delirio, Lipchitz ci riporta con strazio a quella di Jeanne Hébuterne: «E poi giunse la tragica notizia del suicidio di Jeanne. Era incinta di quasi nove mesi di un altro figlio di Modigliani e quando arrivò nella camera mortuaria dell’ospedale si gettò su Modigliani, coprendone il viso di baci. Lottò con gli inservienti che volevano trascinarla via, sapendo quanto fosse pericoloso, per lei, che era incinta, toccare le piaghe aperte, che coprivano il viso di lui. Era una strana ragazza, esile, con un lungo viso ovale che sembrava quasi bianco più che roseo, e i capelli biondi raccolti in lunghe trecce; mi colpì sempre il suo aspetto quasi gotico. Jeanne andò da suo padre – era stata ripudiata perché viveva con Modigliani – e si gettò dal tetto della casa».
Lipchitz conclude le sue memorie scrivendo: «[Modigliani] Era consapevole delle sue doti, ma la vita che condusse non la condusse a caso. La scelse. […] Più di una volta mi disse che desiderava “une vie brève mais intense”».
Lunia Czechowska
«Enfin j’allumai une bougie et lui proposais de rester diner avec nous. Il prenait plaisir à prendre ses repas chez nous et mon invitation arriva à le calmer. Pendant que je préparais le diner, il me demanda de relever la tête quelques instants, et, à la lueur de la bougie, il esquissa un admirable dessin, sur lequel il écrivit: “La vita è un dono: dei pochi ai molti: di Coloro che Sanno e che hanno a Coloro che non Sanno e che non hanno”».
Enzo Maiolino
«Ed ecco apparire una specie di muratore, vestito di velluto consunto, con un ampio cappello in testa, la vita stretta in una sorprendente sciarpa di lana. Attraversa la strada, viene verso di noi, getta il cappello e si presenta. È la prima volta che sentiamo “Modigliani”. […] C’era un sole smagliante alla sua sepoltura. Un tempaccio con pioggia e neve l’indomani, a quella della povera Jeanne. Ho infiorato la sua tomba, più tardi, con un mazzetto di viole di cui sento ancora il profumo».
Anna Achmatova
«Modigliani amava di notte errare per Parigi e spesso, ascoltando i suoi passi nel silenzio assonnato della via, mi avvicinavo alla finestra, e, attraverso la gelosia, seguivo la sua ombra, che indugiava sotto le mie finestre. […] Una volta non fummo chiari nel darci appuntamento, ed io passando da lui non lo trovai a casa. Decisi allora di aspettarlo qualche minuto. Tenevo tra le braccia un mazzo di rose rosse. La finestra sulle porte chiuse era aperta. Non sapendo che fare, mi misi a gettare rose nell’atelier. Poi, senza aspettare Modigliani, me ne andai. Quando ci incontrammo, egli mi manifestò il suo stupore: come avevo potuto penetrare nella stanza chiusa, se la chiave l’aveva lui? Gli spiegai quello che avevo fatto: “Non è possibile, erano sparse così bene”».