Renoir scultore *

 

 

Torna all’indice dei testi →

Da l’onda del fiume
rialzo il capo; e sono tutta chiara
di luce.

 

Anacreonte di Teo

Pierre-Auguste Renoir, La grande laveuse accroupie, 1917

Il recente libro di Paul Haesaerts Renoir sculpteur, edito nel Belgio da Hermes, documenta ed illustra tutta l’attività di scultore di Renoir: ventiquattro pezzi tra busti, medaglioni, altorilievi, maquettes, grandi e piccole statue.
Un’attività saltuaria compresa nel giro di dodici anni, dal 1907, anno in cui Renoir eseguì la sua prima scultura, un medaglione di suo figlio Claude destinato ad ornare il camino della villa di Cagnes, al 1918, l’anno della Danseuse au tamborin e del Joueur de fluteau, due piccoli altorilievi in terracotta.

 

Dodici anni di lavoro, quindi, non molti e per di più condotti per mano altrui (solo il medaglione del 1907, già citato, ed un busto dello stesso figliolo del 1908 sono le uniche opere direttamente eseguite da Renoir), perché quando Vollard indusse Renoir a fare della scultura, la malattia, un reumatismo cronico ed acuto, aveva già rattrappito ed accartocciato le mani del pittore fino al punto che le unghie gli si conficcavano nel palmo della mano. Ma Vollard, scartata una prima idea di far lavorare Maillol poiché questi in quegli anni aveva già una personalità ben definita, trovò Richard Guino, un giovane catalano di ventitré anni allievo di Maillol, che riuscì a modellare le più belle ed importanti sculture. Renoir ne sorvegliò e ne diresse solamente l’esecuzione materiale, condotta e ispirata a disegni e a figure di quadri, limitandosi ad indicare con una stecca legata alle mani anchilosate dove occorreva togliere od aggiungere, semplificare od ingrandire. Ciò potrebbe far sorgere dei dubbi sulla autenticità di queste sculture, ma a dimostrare che esse sono di Renoir e soltanto sue sta il fatto che l’opera personale di Guino ha uno stile freddo, uno spirito meramente decorativo e non presenta alcuna influenza, alcun contatto con quella del vecchio pittore.
Altri ancora, una volta che Guino lasciò lo studio di Cagnes, lavorarono per Renoir, ma nessuno comunque ebbe mai uno spirito di interprete così sensibile ed attento come questo giovane e la realizzazione delle più belle sculture, dalla piccola alla grande Venere, è dovuta alla sua entusiastica e sapiente opera di artigiano.
Importa ora sottolineare che il passaggio da una pratica d’arte a un’altra, da un mezzo di espressione a un altro, dalla pittura, infine, alla scultura, fu per Renoir un passaggio logico, una esigenza cui non poteva fatalmente sottrarsi per l’altissimo limite di plasticità e intensità di forma che i suoi grandi nudi avevan raggiunto in pittura.

 

La scultura non è quindi per lui un nuovo mezzo di ricerca, in cui la sua personalità possa sempre più affinarsi, ma una conclusione logica e ineluttabile di tutta la sua vita, una specie di apoteosi diremmo – se non temessimo certe parole – della sua opera stessa. Una maturità d’artista che si concreta in volumi, in equilibri, in sintesi e ritmi definitivi e grandiosi, poiché questi sono, ormai, l’unico e possibile mezzo con cui esprimere la ritrovata e rinnovata verginità del creato, e riproporre e confermare una rinascita del Mito, il mito della donna che si identifica nella Natura stessa, intesa come forza creatrice. Guardate ora la statua qui riprodotta; che essa rappresenti una bagnante o una lavandaia è ormai solo un fatto accidentale, essa è l’Acqua, come giustamente Renoir stesso l’ha chiamata. Questa donna sulla riva diventa l’acqua stessa come simbolo di uno degli elementi del mondo. E Renoir voleva realizzare nelle stesse dimensioni un grande Forgeron che avrebbe chiamato Le Feu, ma di cui non rimane che una piccola maquette del 1916. Un fabbro, gemello della lavandaia, che divenisse immagine e simbolo del fuoco.

 

Ora, capirete che non importa più di sapere che La grande laveuse accroupie è stata realizzata in una baracca di Cagnes, nel giardino di una villa, non importa di sapere né l’epoca né come e per mano di chi fu innalzata, importa solo capire e sentire che questa scultura non può essere nata che sulle rive del Mediterraneo. È così piena di luce, così armoniosa nell’impianto, così grandiosa e così autenticamente classica nello spirito e nella forma che su altre rive non può essere nata, che su quelle a cui già un tempo s’affacciarono e giunsero i Greci.
Il gesto, questo racchiudere in un arco che s’apre uno spazio, queste grandi linee della schiena che convergono e salgono verso il capo marino, il largo e solenne gesto delle braccia levate e il panno che ne discende in curva, ci rievocano una di quelle grandi conchiglie che in sé contengono e ripetono l’eco del mare.
La luce che l’illumina pare diventi umidore ed essa, appena sortita dall’acqua, gloriosa e splendida, si sofferma sulla riva a un lavoro umile e usuale, ma che qui diviene solenne: pare che volti la testa, con le braccia levate, come a un richiamo del mare donde è appena uscita.

* M. Negri, Renoir scultore [1950], in Id., All’ombra della scultura, Scheiwiller, Milano 1985, pp. 15-17.